Luis Alberto: “Sarei rimasto a vita nella Lazio. Società speciale, ma non per chi ci sta dentro”

Luis Alberto: “Sarei rimasto a vita nella Lazio. Società speciale, ma non per chi ci sta dentro”

Dichiarazioni

Condividi l'articolo

Lettera di Luis Alberto a Cronache di Spogliatoio: “Non sarei mai andato via dalla Lazio. Sarei rimasto a vita.

E ci ripenso spesso: chissà se nel 2020 avremmo potuto vincere lo Scudetto. Eravamo lì. Poi è arrivato il Covid, è arrivato il lockdown. Senza, ce la saremmo giocata fino all’ultima giornata. Eravamo lì per vincere, sicuramente. Perché non so cosa sia successo. Appena il campionato è ripreso, abbiamo perso Leiva e Cataldi per infortunio, ma anche Marusic e Patric. Siamo rimasti in pochi, dopo due mesi fermi, e il nostro ritmo non era più lo stesso. Fino a febbraio, le partite in casa le vincevamo al 20’. Eravamo in testa con la Juventus, con 17 vittorie su 22 partite, e avevamo alzato la Supercoppa Italiana. Era normale che ne parlassimo in spogliatoio.

Siamo arrivati ad affrontare il Milan senza Ciro e Caicedo. Nella prima partita dopo il lockdown, vincevamo 0-2 contro l’Atalanta.Abbiamo fallito lo 0-3 e alla fine abbiamo perso 3-2. Ne abbiamo parlato tante volte nello spogliatoio. E anche dopo, di come sarebbe potuta andare. Alla fine siamo arrivati in Champions League, che era importante per i tifosi e la società.

Sono stato contento che, almeno mister Inzaghi, alla fine sia riuscito a vincere lo Scudetto. Per noi non era soltanto un allenatore, era come un padre calcistico. Con lui anche chi non giocava era contento. Fa la differenza sotto l’aspetto umano.

Vi racconto questa.

Inzaghi era alla Lazio da 21 anni. Quando non vincevamo una partita, la mattina successiva era distrutto. Lo vedevi, il calciatore ne rimaneva colpito. Dentro di te, dicevi: «La prossima partita dobbiamo vincere per lui». Ti dava tutto e con lui, facevamo ciò che volevamo: «Mister, per favore, possiamo cambiare orario di allenamento che domani abbiamo una cena?», oppure «Mister, domani devo portare mio figlio in un posto, posso arrivare leggermente dopo?». Lui è stato giocatore e ha figli, ti rispondeva: «Nessun problema, vai. Il calcio è una cosa, la vita un’altra». E alla fine quello ti rimane dentro.

Perdeva sempre la voce dopo la partita! La mattina dopo, in allenamento, praticamente non lo sentivi. Cataldi era il più bravo a imitarlo, veramente identico, lo fa perfetto.

Perché sono andato via? Ditemi uno che è uscito bene dalla Lazio. Fanno così: guardate ora proprio Cataldi… era lì fin da piccolo. È un peccato perché poi vedi altre squadre che si comportano diversamente: almeno ti fanno fare un saluto o una conferenza stampa. Radu, ma anche con Lulic e Milinkovic-Savic, a nessuno di loro è stato concesso. Tutti escono male perché non parlano in faccia, è un peccato. La Lazio è una società speciale, però non per le persone che ci sono dentro, ma per quello che c’è fuori, che è una roba pazzesca. Ho tanti amici tifosi, quando parli con loro è tutto. C’è gente che lo mette davanti alla famiglia. Noi eravamo felici dentro perché c’erano Inzaghi e Tare. Con Igli ho litigato mille volte, ma sapevamo che eravamo due persone giuste e trovavamo la ragione. Dopo quel periodo è finito tutto. Quella è stata la differenza, anche quando è andato via Sarri, era finito il ciclo. Avevo appena rinnovato, per me l’idea era restare a vita. Non mi andava però di rimanere in un posto in cui non vedevo niente di pulito. Non sono mai stato zitto. Era il momento di andarmene e stare più tranquillo calcisticamente.

Quando sono andato via dalla Lazio, ho detto che non sarei andato in un’altra squadra italiana. Non volevo. 

La Lazio voleva il costo del cartellino e per la Spagna era una cifra troppo alta, così come lo stipendio. Avevo parlato con alcuni giocatori che sono qui a Doha e tutti me ne avevano parlato benissimo, e ne ho guadagnato in vita, posso uscire di casa tranquillamente e fare le cose con i bambini. Hanno detto che me ne son andato per soldi: non è vero. Guadagno di più ma i soldi li avevo anche prima.

La fine definitiva è stata la partenza di Sarri.

Aveva un carattere particolare. Io pure. Io volevo andare al Cadice in prestito perché non ero contento. Torno dopo 10 giorni in Spagna, era durante la sosta per il Mondiale. Volevo andare al Cadice, mi allenavo come un matto. Lui lo nota e io gli dico: ‘Voglio andare al Cadice’, al mio paese. Mi risponde: ‘No, non vai da nessuna parte. Se ti alleni così, giochi ovunque con me. Ho capito il tuo carattere’. Mi dice così e io gli ho dato fiducia. Ho iniziato a giocare. Gli ho detto dell’offerta dal Qatar, mi ha detto che avrei dovuto rinnovare. Parlavamo tutti i giorni. Mi dicevano che parlavo tanto dentro al campo, ma cercavo di aiutare il mister dentro al campo. Quando è andato via, mi è dispiaciuto. Le sue sedute video erano durante la siestaper noi spagnoli con tanti video c’era il rischio di addormentarsi! Tatticamente il migliore che ho avuto.

Eppure ne ho visti di spogliatoi. L’unico anno in cui mi sono divertito in carriera, però, è stato un altro. Tanti anni fa, a Barcellona. Mi sono allenato alcune volte con i grandi. Il più forte era senza dubbio Messi, ma mi impressionava Busquets, come si allenava, oppure Iniesta. Xavi era già allenatore in campo. Era bello allenarsi con loro perché capisci tante cose. È stato l’unico anno divertente della mia carriera.

Anche a Liverpool lo spogliatoio era bellissimo. Avrei potuto fare di più: sarei potuto rimanere lì, ma ero giovane e volevo giocare, quindi sono andato. Suarez per me è stato come un padre lì, è una bellissima persona. Un fenomeno. Ero sempre con lui. Non ho giocato tanto ma ho imparato, ho visto che la Premier League è fantastica in tutto, hanno un’organizzazione che è la migliore. Eravamo sempre a casa l’uno dell’altro. Fuori di casa con lui era impossibile uscire.

Adesso gioco tanto a golf. Pepe Reina mi ha contagiato. All’Olgiata, fuori Roma, ho iniziato ad allenarmi: i primi tempi non prendevo neanche la pallina. Mi sono fatto qualche amico. Mi serviva per stare 3-4 ore senza telefono, non sentivo nessuno.

Voglio chiudere salutando la mia squadra. Quella dei miei amici di ProClub, su FIFA. Non gioco per rilassarmi… perché dipende a che gioco giochi ahah!

Per me è un modo di sentire gli amici che non vedi. Ne ho tanti che sto più di un anno senza vederli, ridiamo e ci insultiamo. È un modo per stare connessi. Dimentichi il resto, e che non li vedi da tanto tempo.

Facevo Pro Club con alcuni ragazzi che non conoscevo, invece. Avevo fatto una live su Twitch, non li avevo mai visti. Quella live è stata una specie di selezione. È nato tutto così, a caso. Ogni tanto ci sentiamo, chi da Napoli e chi da Torino. Non li conoscevo, erano tifosi: loro sapevano che ero Luis Alberto, ma lì eravamo tutti uguali.

Li ho invitati alle partite e loro mi portavano regali. Il mio giocatore si chiamava “Gigi” perché un mio amico mi chiamava così, Alberto Moreno del Como.

Tutti mi avete chiamato “Mago”. Per me, la volta in cui sono stato davvero mago, è stata una partita contro la Fiorentina. Una situazione in cui il 95% dei calciatori spara la palla: io invece l’ho controllata di testa in mezzo a due, li ho superati, ho fatto una finta e ho servito Ciro. Peccato che era in fuorigioco. Lì sì, che giocavo con la mente libera”.