Lazio, vent’anni fa lo scudetto con un finale da film

Lazio, vent’anni fa lo scudetto con un finale da film

Amarcord

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Ore 18.04 del 14 maggio 2000.

Uno scudetto così non si era mai visto. C’era già la tv a pagamento, ma non certo negli stadi. E i telefonini al massimo potevano mandare messaggini, mica la diretta streaming. E così stavano tutti attaccati alla vecchia cara radiolina di Fantozzi, che trasmetteva “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” in edizione speciale.Nell’attesa i laziali dopo aver già festeggiato la fine del bellissimo campionato della Lazio, con i gol di Simone Inzaghi, Veron e Simeone alla Reggina, se ne andavano bighellonando qua e là per il campo, sbandierando e abbracciandosi. Già felici così. La squadra era rientrata negli spogliatoi per accalcarsi davanti alla tv, le immagini dell’epoca danno Orsi, Salas e tutti gli altri mentre guardano nei monitor tv cosa sta succedendo al Curi, dove si gioca ancora Perugia-Juventus. E’ scontato che la Juve vinca no?  Nessuno in quel momento poteva pensare che davvero arrivasse uno scudetto via radio.
 

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Succede invece. Lo scudetto alla Lazio arriva alle 18.04 di quella domenica pomeriggio di venti fa, perché il Perugia batte la Juve in una delle più controverse partite della storia del calcio italiano. Nell’intervallo della partita la pioggia era considerevolmente aumentata fino a diventare un uragano che ridusse il campo a un’immensa pozzanghera. L’arbitro Pierluigi Collina, ripreso con l’ombrello per fare le prove di rimbalzo del pallone, decise di aspettare un’ora, prima che la pioggia rallentasse e si potesse tornare a giocare tra mille difficoltà.

DI GIANNI MURA

La Juventus non glielo perdonerà mai e per una volta Moggi e Giraudo si videro tenuti distanti e messi al loro posto dal re degli arbitri italiani. Che cocciutamente portò al termine la partita, su un campo che del resto era lo stesso per entrambe le partecipanti. Si tornò sul campo sullo 0-0 e la Juventus ebbe un tempo intero per vincerla quella partita, ma non ci riuscì.

Per paradosso lo scudetto della Lazio porta soprattutto la firma di Alessandro Calori, difensori toscano, che al Perugia trascorse solo quella stagione e il cui ultimo ultimo gol per la squadra di Mazzone e Gaucci fu appunto quello decisivo. Quello che dette lo scudetto alla Lazio, 26 anni dopo il primo di Chinaglia e Maestrelli. E tutti gli scudetti che arrivano al di sotto della Milano-Torino sono a loro modo “storici”.
 

DI LUIGI PANELLA

Anche se, tutto sommato, fu una sorpresa abbastanza relativa. Gli equilibri del calcio allora erano differenti. L’anno precedente la Lazio aveva perso lo scudetto per un punto contro il Milan, l’anno successivo lo avrebbe vinto la Roma.

Quello scudetto ha le radici nel disegno folle  di Sergio Cragnotti, industriale precipitato nel calcio, poi coinvolto nel clamoroso crac Cirio e di molte altre aziende. La Lazio, grandissima squadra, un gruppo di campioni strappati a suon di miliardi alle tradizionali big del calcio, era la vetrina della sua malata e anche furfantesca grandeur. Rappresentava, Cragnotti, una borghesia sbrigativa e senza scrupoli che andò allo scontro, per non dire in guerra, con la nobiltà del pallone. Per poi finire di filato in carcere.

La Lazio di quegli anni vide lo sbarco a Roma di giocatori come Gascoigne, Signori, Mancini, Nedved, Boksic, Vieri, Simeone e tantissimi altri: un pantheon di campioni. Era come se la Milano da bere e degli yuppies si fosse trasferita a Roma.

Per dare la misura delle follie cragnottesche e dello spregiudicato clima da raider della finanza che si era impadronito del calcio, Christian Vieri viene comprato ad agosto ’98 dall’Atletico Madrid per 55 miliardi di lire e rivenduto a giugno ’99, dieci mesi dopo, all’Inter per 90 miliardi. L’anno dopo lo scudetto 2000, sarebbe stato acquistato Mendieta per 89 miliardi, un vero bidone il cui altissimo valore iniziale praticamente si dissolverà totalmente in breve tempo. E infatti da lì a poco la bolla cragnottesca sarebbe esplosa clamorosamente, facendo venire giù tutto. Anche la Lazio stessa.

L’apice di quella stagione, in una raffica di polemiche arbitrali al calor bianco con la Juve sempre al centro e Cragnotti sempre all’attacco, fu il 1° aprile con la notturna al Delle Alpi tra Juventus e Lazio. Mancano addirittura Marchegiani, Nesta, Mancini e Salas ma la Juventus di Zidane, Del Piero e Filippo Inzaghi, sbatte e si intestardisce contro il muro della Lazio e soprattutto di Marco Ballotta in porta. E Simeone segna così lo storico gol che diventa il fondamento principale dello scudetto laziale.
 

DI MAURIZIO CROSETTI

La Lazio aveva in panchina l’ineffabile Sven Goran Eriksson, ottimo allenatore, abile gestore dei tanti campioni, gran navigatore della vita e del pallone, buon viveur da trovare nella capitale la sua bambagia. E soprattutto la Lazio aveva una squadra straordinaria: Marchegiani, Nesta, Mihajlovic, Simeone, Stankovic, Nedved, Veron, Salas, Simone Inzaghi, Mancini, Boksic. Roberto Mancini che ne fu la mente in campo – e infatti un anno dopo era già l’allenatore della Fiorentina – vinse con la Samp prima e con la Lazio poi. Uno straordinario rivoluzionario col ciuffo, la sciarpa al collo e i vestiti dei migliori atelier della Capitale.
 

repubblica.it