Memorie e gloria: quando Giorgio Vaccaro salvò la Coppa del Mondo dalle grinfie dei nazisti

Memorie e gloria: quando Giorgio Vaccaro salvò la Coppa del Mondo dalle grinfie dei nazisti

Amarcord

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Roma, novembre del ’43, mattina come altre, fresca, luminosa, a casa Barassi suonano alla porta.

È il custode, è salito per informare che ieri sono stati qui i tedeschi e cercavano proprio del dottor Barassi. Cosa volevano? Non lo sa, sono saliti hanno suonato e bussato anche se aveva avvisato che il commendatore non era in casa, nessun commento e se ne sono andati abbastanza seccati. Erano in due ma fuori c’era una camionetta con sopra altri soldati. Il giorno seguente è un dirigente della Federcalcio a far visita, dice che senza avviso si sono presentati in sede dei tedeschi in abiti civili, volevano sapere dove fosse la Coppa del Mondo, lui ha risposto che non lo sapeva, hanno girato per gli uffici, hanno aperto tutte le porte, guardato negli armadi e poi se ne sono andati abbastanza furiosi. Anni prima, 29 maggio 1928, la Federation International de Football Association si è riunita ad Amsterdam sotto la presidenza di Jules Rimet e ha deciso la nascita di una competizione per nazionali, in sostanza il primo Mondiale che si disputerà due anni dopo su proposta di Henry Delanue.
Rimet decide che la competizione avrà cadenza quadriennale e commissiona al francese Albert LaFleur un trofeo per premiare la vincitrice. LaFleur, abilissimo orafo di scuola Cartier, sceglie l’effige di una vittoria alata che regge una coppa di un chilo e ottocento grammi d’argento e oro 18 carati su base ottagonale di marmo tempestata di lapislazzuli. Il nome della neonata coppa è Victory, e Victory si chiama ancora nel ’43 quando a custodirla siamo noi campioni del Mondo in carica con altissime probabilità di detenerla definitivamente perché Rimet ha deciso che andrà per sempre alla nazionale capace di conquistarla tre volte e noi lo abbiamo già fatto nel ’34 e nel ’38. Insomma ce la sentiamo. Ma scoppia la seconda guerra mondiale, l’edizione del ’42 salta, e negli uffici della Figc c’è la coppa che i tedeschi non hanno trovato. A proposito, Ottorino Barassi è il segretario della federazione, è nato a Napoli, suo padre, colonnello di artiglieria, è trasferito a Cremona e qui Ottorino passa la gioventù, gioca a calcio nell’Unitas, combatte nella prima Guerra mondiale, si laurea in ingegneria elettrotecnica, frequenta il corso arbitri, diventa corrispondente sportivo per la Provincia, viene eletto vicepresidente dell’associazione arbitri, e in un periodo dove il calcio conquista sempre più popolarità, scala rapidamente le posizioni, entra in Figc e organizza il mondiale del ’34 di Roma. Ora, è evidente che la custodia della Coppa Victory sia di sua strettissima pertinenza. E lì non è più sicura. Barassi in tutta segretezza, con mille precauzioni e senza mettere al corrente alcun funzionario, la preleva e la deposita in una banca. Fin quando arriva la soffiata da un dirigente fidatissimo: i tedeschi sono furiosi, la vogliono. Anche la banca a quel punto non è più un posto sicuro, i tedeschi sono padroni in città qualunque porta si spalanca. Adolf Hitler la vuole, due chili d’oro e il simbolo della nazionale più forte del Mondo, due ragioni estreme, e al Platzkommandantur di Roma arriva l’ordine di portargliela, rapido. Barassi fa circolare la voce che la coppa sia a Firenze, ma i nazi non ci cascano e una mattina all’alba si presentano nella sua abitazione in Piazza Adriana, dietro Castel Sant’Angelo. La coppa è dentro una
scatola di scarpe sotto il suo letto. Il custode non ha trovato il tempo di avvisarlo, alla porta va la signora che in qualche modo li intrattiene nel tinello, poche chiacchiere, entrano, costringono i coniugi in un angolo, perquisiscono, Barassi è pallido, ma è un nuovo fiasco, non la trovano. Solo questione di tempo. Poco. La mattina seguente identica scena, la signora sulla porta a raccontarla, i tedeschi furiosi e Barassi sul balcone con la coppa avvolta in un panno fra le sue braccia. Ha preso accordi con il vicino, il generale della Milizia Giorgio Vaccaro, presidente della Federcalcio e membro del Cio, in caso di allarme gliela avrebbe passata dal balcone. Quando rientra si trova davanti il comandante sul nervoso e qui va in scena un teatro che fa scuola: Mi creda, non ne so niente, implora quasi in ginocchio con una lacrima che gli solca il viso, forse è stata portata al Coni di Milano, sono solo un povero segretario, a me certe cose non le dicono, queste sono decisioni che vengono prese molto più in alto. Il comandante tedesco vacilla. Ma così non si può continuare. E non finisce lì quella mattina, il comandante esce da una porta e entra nell’altra. Suona a Vaccaro, la coppa adesso è lì, nascosta sotto le lenzuola del lettino del figlioletto che ancora dorme. Anche Vaccaro parte con la commedia, mostra ai tedeschi la sua collezione di armi e una personalissima lettera ricevuta e firmata addirittura da Hermann Goring in cui si celebra la loro imprescindibile amicizia. La Gestapo desiste perché in casa di un così fidato alleato non può celarsi quello che stanno cercando. Si può vivere a questo modo? Viene presa la decisione definitiva, la Coppa Victory viene trasportata su un carro bestiame a Torremaggiore in provincia di Foggia presso l’abitazione in via Monte Grappa di Leonardo e Lisetta Barassi, parenti dell’ingegnere, e qui rimane nascosta per due anni in un fusto di olio extra vergine d’oliva. Quando nel ’46 in Lussemburgo si tiene il primo congresso Fifa del nuovo mondo libero, nessuno sa cosa ne sia della coppa, finché Ottorino Barassi con un colpo di scena spettacolare estrae da sotto il tavolo una scatola nera mostrando a tutti la Coppa Victory che da quel giorno si chiama Rimet. Trionfo.

C.D.C. – Il Giornale